Tre notizie mi hanno fatto molto riflettere nelle due settimane scorse.
La prima e’ quella data dall’Economist, sulla base di dati delle Nazioni Unite, secondo cui negli ultimi vent’anni il numero dei poveri nel mondo e’ diminuito di circa un miliardo. Questo significa che, nello spazio di una generazione, un miliardo di persone, 20 volte l’Italia e 2 volte l’Unione Europea, sono passate da uno stato di poverta’ assoluta ad un minimo benessere. Decine di milioni poi sono diventati addirittura classe media.
La Cina ha contribuito a circa il 60% di questo cambiamento, con 600 milioni di persone che hanno attraversato la “poverty line” segnata dalle Nazioni Unite. Ma anche altri paesi, soprattutto in Asia, hanno beneficiato del cambiamento. Dietro questo miracolo, che dobbiamo augurarci possa ripetersi per il miliardo e piu’ di persone che continuano a vivere con meno di 1 Euro al giorno, ci sono stati vari “motori”. Tra questi, non va mai dimenticata anche la liberalizzazione del commercio e degli investimenti internazionali, ovvero la possibilita’ (sfruttata poi al meglio da quei paesi che hanno dimostrato anche un’ottima capacita’ di “governare” la transizione), di commerciare con i Paesi piu’ ricchi e di imparare ed usare nuove tecniche attraverso trasferimenti di tecnologia e massicci investimenti esteri. La notizia, che fino a pochi anni fa ci avrebbe rallegrato, ovviamente e’ passata inosservata in Italia e forse in gran parte dell’Europa, tormentata da una crisi economica ormai al quarto anno.
La seconda notizia e’ piu’ recente ed e’ il rapporto congiunto presentato al G20 dal WTO, OCSE e UNCTAD sullo stato del commercio estero e degli investimenti. Il rapporto, tra le alter cose, evidenzia un trend preoccupante: il riemergere di politiche protezionistiche negli ultimi due anni, attuate soprattutto – e non c’e’ da sorprendersi – dai paesi piu’ ricchi del G20.
Protezionismo che si estende non solo ai rapporti commerciali, ma anche – incomprensibilmente – a quelli d’investimento. Il rapporto nota, infatti, che le misure adottate a favore di investimenti esteri sono state poche, mentre misure che possono definirsi protezionistiche dal punto di vista commerciale sono state numerose. Sembra quasi che alcuni tra i Paesi piu’ ricchi stiano valutando l’opzione di chiudersi progressivamente e di far fare una marcia indietro alla globalizzazione. Dimenticando che sono stati i primi a beneficiare (e ancora in buona missura beneficiano) dalla stessa, attraverso l’accesso a beni a costi impensabili fino a pochi anni prima e la vendita di beni ai paesi che ne avevano bisogno. E dimenticando che senza questo processo, probabilmente una buona parte di quel miliardo di persone si troverebbe ancora in condizioni di abietta poverta’, utile solo a riempire le immagini dei nostri telegiornali, a tormentare le nostre coscienze per poi comunque farci sentire meglio attraverso l’invio di patetici “aiuti”.
E’ difficile arrestare questo processo per cosi’ dire di “depauperizzazione”, al quale probabilmente andra’ trovato un’altro nome visto che “globalizzazione” in alcuni paesi europei e’ ormai quasi un insulto. E’difficile perche’ sono proprio i paesi ai quali abbiamo predicato per anni che dovevano “aprirsi” che in realta’ non vogliono arrestarlo. Ovviamente, a questo punto molti si chiedono: e’ proprio necessario che per sollevare gli altri dalla poverta’ assoluta noi europei dobbiamo diventare piu’ poveri (o “meno ricchi”, se la domanda se la pone uno squatter che vive in una capanna di latta a Mumbai)?
Decine di economisti ci hanno spiegato che cio’ non e’ necessario, ma che anzi dalla libera circolazione dei beni e degli investimenti dovrebbero beneficiarne tutti. E’ l’assunto base dietro la creazione del WTO:
– Un commercio soggetto a regole precise beneficia tutti.
– Un commercio soggetto a regole che si applicano a tutti, con eccezioni limitate, giustificabili e per periodi brevi.
– Un meccanismo di risoluzione delle controversie mai visto nella storia del mondo (nel quale le controversie commerciali portavano a guerre, distruzioni, morti ammazzati).
Non ci sono vincitori ne’ vinti, ma tutti possono diventare vincitori se si adattano e migliorano l’offerta dei loro prodotti e se attraggono investitori strategici (non “mordi e fuggi”). Eppure questo meccanismo si e’ progressivamente inceppato dopo la crisi finanziaria del 2008. Una crisi non creata dal commercio di beni e di servizi e dagli investimenti produttivi che migliaia di aziende hanno fatto in decine di paesi, ma da un colpevole quasi inafferrabile, “etereo” , difficile da inchiodare al muro: la cosiddetta finanza globale, che se vi ricordate bene ha bruciato centinaia di miliardi di euro, cifre che avrebbero potuto essere destinati a fini molto migliori e piu’ utili per tutti. Non la globalizzazione, signori miei, e’ il colpevole da inchiodare al muro, a meno che non vogliamo privare il resto del mondo dell’opportunita’ di svilupparsi (veramente vogliamo questo?), ma l’abuso della globalizzazione, signori, ecco il colpevole.
E la terza, direi ferale, notizia, l’ha data il Sole 24 del 6 giugno, ricordandoci che gli stessi derivati che hanno causato la piu’ grande crisi finanziaria dell’Occidente sono purtroppo tornati di nuovo di moda tra le banche commerciali e quelle d’investimento. 740,000 miliardi di dollari il valore della finanza globale oggi. 20,000 in piu’ di quando scoppio’ la crisi nel 2007! E questa volta con soggetti e protagonisti nuovi, spesso non bancari, che vivono fuori dalle regole. Un’altra tragedia mezza annunciata che potrebbe, quella si’, annientare l’Occidente come lo conosciamo.
Solo un’Europa che sia unita e forte puo’ riprendere un ruolo di guida nel mondo proponendo e imponendo regole che evitino questa nuova tragedia. Bloccare i prodotti cinesi, indiani o brasiliani che consumiamo tutti i giorni e che servono alla nostra economia, purche’ siano venduti nel rispetto di regole che abbiamo scritto (non dimentichiamolo) noi “mondo sviluppato” negli anni ’90, significa spararsi un altro colpo di fucile sui gia’ martoriati piedi. Non adottare politiche per incoraggiare investitori stranieri strategici (non speculativi!) in settori produttivi in Paesi come l’Italia, la Spagna o la Francia, infine, e’ un insulto a milioni di disoccupati.
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