Mercoledì sette gennaio l’Arabia Saudita condannava l’attentato a Charlie Hebdo, insieme a gran parte dei paesi arabi. Due giorni dopo ad un blogger saudita che aveva espresso idee fortemente liberali venivano comminate le prime 50 di 1000 frustate cui era stato condannato (oltre a 10 anni di reclusione). Una settimana dopo, ad una donna birmana emigrata in Arabia Saudita, accusata di omicidio, veniva tagliata la testa in un parcheggio pubblico; in Pakistan e in Niger venivano attaccati obiettivi francesi da folle inferocite, in una riedizione dell’attacco ad ambasciate e obiettivi danesi dopo la pubblicazione delle famose “vignette” quasi nove anni fa.
(Foto di Valentina Calà)
Un amico avvocato cinese poi (che viene da un altro paese sotto attacco dal terrorismo separatista uiguro, popolazione di fede musulmana che ha compiuto attacchi suicidi fin nel cuore di Pechino) mi chiede perché “la Francia” ha deciso di “provocare l’Islam” deridendo una religione altrui, e mi dice che ci si doveva aspettare una reazione del genere. Ecco, negli episodi sopra riportati e nello sconcerto del mio interlocutore cinese (“cosa vi aspettavate?”) sono condensate tutte le sfide e le contraddizioni derivanti dalla coesistenza inevitabile di culture e valori diversi in un mondo con confini sempre più labili.
L’Occidente si trova ad un bivio nella sua storia tormentata: il processo storico che ha portato, anche a seguito della Riforma e poi dell’Illuminismo (e non senza alti e bassi) ad una chiara separazione tra stato e Chiesa e all’affermazione definitiva dei principi dello stato di diritto e della libertà di parola e di pensiero, è un processo che altre culture, altri popoli, non hanno ancora sperimentato e potrebbero anche non voler sperimentare, perché magari lo ritengono errato.
Davanti a questo bivio, l’Occidente ha due alternative: (a) cercare di evitare del tutto contatti diretti con queste culture che si trovano in una fase storica diversa (e che, ripeto, potrebbero anche non riconoscere mai quelli che noi riteniamo “valori universali”). Oppure cercare di cambiarle e di intervenire contro le frange più radicali ed estremiste, operando con la forza della persuasione verso i “moderati”.
(Foto di Valentina Calà)
Entrambi le strade sono pericolose e dense di incognite: la prima, perché impedire che queste culture si incontrino e convivano comporterebbe tra l’altro una militarizzazione dei confini esterni, perlomeno della UE (con il rischio che questo avvenga anche per gli “ex” confini interni) e (b) una brusca espulsione dal territorio europeo di elementi che non accettino la completa “assimilazione”, processo moralmente ripugnante e che potrebbe scontrarsi con la protezione che i nostri sistemi giuridici offrono a chi magari ha la cittadinanza di un paese europeo (ricordo ancora l’incontro con un barrister inglese che si occupava di difendere cittadini inglesi – accusati di appartenza a gruppi jihadisti – contro la minacciata espulsione e contro l’invasione della loro “privacy”, e lo faceva con discreto successo).
La seconda, perché cercare di intervenire e cambiare significa inevitabile perdita di vite umane americane o europee ed esporsi, come sta già avvenendo, ad una “jihad” estesa da parte delle frange estremiste, si chiamino esse Boko Haram o Isis, o Al Qaeda, o all’odio da parte della stessa popolazione, come nel caso dei raid americani nella zona nord occidentale del Pakistan.
(Foto di Simone Fissolo)
Ebbene, io ritengo che, mentre forse fino a 10 o 15 anni fa, se lo avessimo voluto, si sarebbe potuto fare il lavoro moralmente ripugnante della militarizzazione dei confini e dell’espulsione dei “non assimilabili”, questa non è un’alternativa tuttora possibile, perché siamo andati troppo “oltre”.
Anzitutto perché (come rivelato anche dagli insegnanti francesi nelle scuole delle “Banlieue” parigine, sorpresi di quanti studenti non fossero d’accordo con la frase “Je suis Charlie”), la categoria dei “non assimilati” potrebbe comprendere centinaia di migliaia di persone, molte di cittadinanza europea. L’espulsione degli stessi sarebbe legalmente impossibile oltre che moralmente ripugnante proprio per quei valori di “pluralità” che l’Occidente vorrebbe promuovere.
E poi perché l’Europa, soprattutto, non può evitare di confrontarsi con questo mondo, visto che si trova a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste e che ormai è dentro i nostri stessi territori. Le cosiddette “primavere arabe” hanno dimostrato che l’alternativa a regimi autoritari può non necessariamente essere un regime basato sulla democrazia costituzionale e lo stato di diritto, ma può essere una riedizione più “soft” di un sistema comunque autoritario (vedi l’Egitto), o un caos in cui si infiltrano elementi radicali per instaurare regimi ancor più incompatibili con quei “valori” che almeno all’apparenza sembravano aver guidato queste “primavere”.
Unica eccezione in questo quadro deprimente sembra essere la Tunisia, che di recente infatti ha ottenuto l’ambito riconoscimento di “country of the year” da parte dell’Economist, mentre il Libano e la Giordania restano “miracoli” di sopravvivenza e coesione.
Ai risultati deludenti delle “primavere”, si affiancano poi (a) il perdurante caos yemenita e quello iracheno, questo quasi interamente conseguenza di errori degli USA e alleati in quanto l’intervento nel 2003 fu sbagliato anche nei modi (con la decisione fatale di sciogliere l’esercito per costruirne uno nuovo che non è mai venuto alla luce); (b) l’immobilismo e il camaleontismo delle teocrazie arabe che si affacciano sul Golfo, all’apparenza “moderne” ma perlopiù con i piedi saldamente piantati nell’intransigenza religiosa; (c) spostandosi più a Est, un Iran che ancora non ha deciso il ruolo della religione in politica e un Pakistan con la bomba atomica dove il secolarismo tradizionale è contrastato dal terrorismo di matrice islamica che uccide a centinaia, senza distinzione tra musulmani e non; (d) ed infine a Sud del Mediterraneo, il caos delle province settentrionali della Nigeria dove Boko Haram ha ucciso, rapito e torturato migliaia di cristiani e musulmani con apparente impunità il regno della Shabaab in Somalia e il Mali, dove un intervento francese due anni fa evitato l’imminente vittoria dei jihadisti.
Intervenire in questi paesi, sostenendo finanziariamente o militarmente le forze effettive locali (almeno dove è chiaro quali sono quelle legittime) e allo stesso tempo perseguire un’operazione coordinata di polizia antiterrorismo a casa per individuare e neutralizzare le varie ‘cellule” è una strada difficile ma forse l’unica possibile nel breve termine, sperando poi che la forza di persuasione dei nostri valori nei confronti dei “moderati” dia i risultati sperati. Ma, come detto, questo avrà un inevitabile costo in termini di vite umane anche occidentali.
Esiste ovviamente una terza strada, che è quella finora seguita per esempio da paesi come la Cina e l’India, che hanno forti comunità musulmane interne (quella cinese, meno nota, si aggira sugli 80 milioni di persone) e che è quella di “non ingerenza” ma anche di una esplicita repressione della libertà di parola ed espressione a casa, in generale o solo quando questa potrebbe “provocare” le frange radicali ed estremiste.
Charlie Hebdo non potrebbe esistere in India, nonostante l’India sia una democrazia costituzionale, perché basta poco per accendere la scintilla dell’intolleranza religiosa tra i vari gruppi che convivono quasi senza incidenti fin dalle rivolte in Gujarat del 2002. L’India infatti proibisce pubblicazioni che possono “recare offesa”. Né Charlie Hebdo, né la satira più leggera e innocua potrebbe esistere poi in Cina.
La Cina e l’India, inoltre, mantengono tradizionalmente un atteggiamento “hands off” nei conflitti interni al Medio Oriente e al Nord Africa, anche quando i propri connazionali sono soggetti a rapimenti ed estorsioni da parte di bande armate legate più o meno a gruppi jihadisti. L’importante è cercare di fare affari con chiunque e non peggiorare la situazione a casa propria con l’avventurismo fuori dai confini. Posizione troppo comoda o forse cinica, certo, e quindi improponibile in Occidente, se non come “extrema ratio”, quando tutto è perduto, perché significherebbe una parziale sconfitta dei nostri valori.
Estratto dall’articolo pubblicato sul numero di febbraio di “Atlantis Magazine” e scritto da Marco Marazzi.
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