Allargamento a Est

Per “allargamento” s’intende un processo attraverso il quale uno o più paesi fanno il loro ingresso nell’Unione Europea e ne diventano quindi stati membri a tutti gli effetti.

Allargamento 2004
Il tema ha sempre avuto una rilevanza politica notevole ed è stato e continua a essere oggetto di feroce dibattito. Basti pensare al fatto che la Francia negli anni ’60 si oppose due volte all’ingresso del Regno Unito nella CEE e che i timori legati agli effetti del quinto allargamento a “big bang” del 2004, che portò il numero dei paesi UE da 15 a 25, furono anche all’origine della bocciatura della bozza di Costituzione Europea in Francia e in Olanda. Non a caso, quindi l’ingresso di un nuovo stato membro nella UE è ancora materia destinata a essere decisa all’unanimità dai paesi membri.

Il tema dell’allargamento ha anche una valenza storica e culturale notevole, perché ci costringe a chiederci che cosa è l’Europa e quali siano i suoi confini politici, culturali e geografici.

L’articolo 49 del Trattato di Maastricht prevede, infatti, che “ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione”. L’articolo 2 del TUE dichiara che l’Unione si fonda sui valori del “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri (…) ” Ovviamente, né il Trattato di Maastricht nè quello successivo di Lisbona definiscono il concetto di “Stato europeo”. Se per accedere all’UE, quindi, è sufficiente rispettare i principi dell’Unione come delineati nell’articolo 2 del TUE e superare il difficile scoglio delle riforme interne necessarie a rispettare i cosiddetti “criteri di Copenaghen” , allora qualsiasi paese collocato geograficamente in “Europa” potrebbe accedere alla UE.

E che dire quindi della Russia? O dell’Armenia e della Georgia? Dove si ferma l’Europa? Fino a che punto il motto dell’UE “unita nella diversità”, può generare un assetto istituzionale che tenga? Potrebbe comprendere un paese musulmano come la Turchia o l’Azerbaijan? Senza dover ricorrere ai sondaggi, è prevedibile che la risposta da parte di molti cittadini europei possa essere istintivamente “no”. Allora l’Europa va considerata un concetto geografico o religioso-culturale? Se fosse quest’ultimo allora perché non è mai stata presa in considerazione seriamente (da entrambi le parti) un eventuale, futuro ingresso della Russia, paese ortodosso e quindi di religione e tradizioni cristiane che storicamente, almeno fino agli Urali, è stato sempre considerato parte d’Europa?
Un breve excursus storico forse ci aiuta a capire, se non a dare una risposta, a queste domande che sembrano molto teoriche ma che sicuramente risuonano nella mente di tutti i diplomatici europei fin dal giorno in cui assumono l’incarico.

Come spiegato nell’introduzione il nucleo originario che diede origine alla CEE nel 1957 era composto di sei paesi: Germania, Italia, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Il primo allargamento si ebbe nel 1973 con l’ingresso del Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il secondo nel 1981 con l’ingresso della Grecia, il terzo nel 1986 (Spagna, Portogallo), il quarto nel 1995 (Austria, Finlandia e Svezia), mentre il summenzionato “big bang” del 2004 vide l’ingresso di molti paesi dell’Europa centro-orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, le tre repubbliche baltiche) nonché di Cipro e Malta. A questi si sono aggiunti Bulgaria e Romania nel 2007 e da ultima la Croazia nel 2013.

Verso l'adesione

Attualmente, Islanda, Macedonia, Montenegro e Serbia sono i quattro candidati potenziali che con più probabilità completeranno il processo di adesione (ma comunque non prima del 2020 nel caso dei paesi balcanici), mentre Bosnia Herzegovina, Albania e Kosovo sono ancora in una fase molto preliminare e vanno considerati solo candidati potenziali. Con la Turchia procedono negoziati di adesione, molto a rilento, mentre con l’Islanda sono sospesi dal 2013.

Il processo di adesione è molto complesso e lo è diventato ancora di più durante il quinto allargamento del 2004. Come primo passo, la UE conclude un accordo bilaterale (c.d. “accordo di associazione” o di “partenariato europeo”) volto a sostenere finanziariamente e istituzionalmente il Paese candidati nei preparativi per le riforme. Questi programmi sono destinati ad aiutare il paese candidato ad adottare il famoso “acquis communitaire”, ovvero l’insieme delle normative (regolamenti, direttive, etc.) applicabili agli stati membri, che conta più di 100,000 pagine. Agli accordi di associazione di solito fanno seguito i negoziati veri e propri per l’adesione, aperti su decisione del Consiglio UE (dopo raccomandazione della Commissione), i quali sono gestiti dalla Commissione stessa.

I negoziati di solito riguardano più di 30 “capitoli” e iniziano con una fase di screening, cui poi segue la formulazione di una posizione negoziale da parte del Paese candidato che consente l’avvio di negoziati su quello specifico capitolo. Una volta che un capitolo è considerato chiuso, se ne aprono altri, con l’intesa però che l’accordo ci deve essere su tutti i capitoli prima di poter procedere all’adesione. Una volta chiusi tutti i capitoli si procede alla firma di un trattato di adesione, previa approvazione del Parlamento Europeo. Il trattato è firmato da tutti gli stati membri e dal paese candidato. A esso segue quindi l’adesione formale. Dal punto di vista istituzionale interno alla UE quindi, l’intero processo di allargamento non prevede un coinvolgimento del Parlamento Europeo se non in fase finale, ma è gestito (dopo autorizzazione del Consiglio UE, in cui siedono i rappresentanti dei singoli governi) dalla Commissione. Quest’aspetto, oltre al fatto che solitamente le trattative sui singoli capitoli e sulle riforme necessarie per soddisfare i requisiti di adesione sono condotte dai governi dei paesi membri e di quelli aderenti senza interpellare l’opinione pubblica ha dato fiato ad alcune critiche in merito al “deficit democratico” delle decisioni in materia di allargamento e a chi propone che ogni futuro allargamento sia sottoposto a referendum nei paesi membri e in quelli aderenti.

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Dal punto di vista economico, l’ingresso nella UE dei paesi dell’Europa centro-orientale è stato un successo per gli stessi. Città come Bratislava, Praga e Varsavia hanno un PIL, misurato sulla base del purchasing power standard, più alto di Vienna: l’ultimo allargamento a Est del 2004, infatti, ha prodotto un incremento del PIL per la Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca del 5% annuo. Allo stesso tempo nessuno dei timori pre-adesione che, per esempio, avevano infiammato la popolazione polacca (inflazione alle stelle, importazioni alimentari fuori controllo, recessione, crisi del bilancio, brain drain, etc.) si è avverato. Altri paesi però, come per esempio la Romania e la Bulgaria hanno avuto più difficoltà ad adattarsi al nuovo scenario, se si tiene conto anche che appena due anni dopo il loro ingresso la crisi finanziaria ha colpito l’Europa. In generale, però, gli scambi tra i “vecchi” stati membri e i nuovi stati membri sono cresciuti notevolmente (secondo dati UE per esempio sono più che raddoppiati tra il 1999 e il 2007), così come sono cresciuti anche quelli tra stati membri.

Per quanto riguarda l’impatto dell’ingresso dei nuovi membri sulla forza lavoro dei “vecchi” stati membri, le conseguenze sono diverse a seconda del paese. Uno studio di Bruegel del 2010 per esempio calcolava le perdite di posti di lavoro in Germania e Austria a seguito dell’ “allargamento a Est” in circa lo 0.5% della forza lavoro tedesca e l’1.5% della forza lavoro austriaca. L’outsorcing di produzioni a lavoratori a basso costo ha aiutato le multinazionali tedesche e austriache a restare competitive. Lo studio riscontrava pero’ anche un fenomeno interessante per cui a perdere il lavoro erano anche molti lavoratori specializzati, poiché le aziende tedesche e austriache avevano trasferito nei nuovi paesi membri non solo produzioni a basso costo ma anche centri di ricerca. Chiaramente, la situazione è diversa da paese a paese anche per quanto riguarda l’impatto sui singoli paesi membri, ma si può affermare che, per la grande maggioranza dei nuovi entranti, l’ingresso nella UE ha prodotto un vantaggio economico, anche perché ha consentito il loro inserimento in catene globali di produzione.

L’allargamento ad Est ha avuto anche un altro effetto, molto più importante dal punto di vista geopolitico, in quanto ha contribuito a stabilizzare i paesi aderenti e a sostenere il passaggio da regimi autoritari a regimi democratici (purtroppo, però, la UE non sembra avere ancora le “armi” necessarie per impedire che uno stato membro degeneri verso una situazione autoritaria come sembra stia avvenendo, per esempio, in Ungheria). Allo stesso tempo, l’allargamento ad Est ha comportato una revisione delle tradizionali linee guida di politica estera della UE: una buona parte dei paesi dell’ex blocco sovietico sono meno restii a scendere a compromessi con la Russia, temono la nuova politica espansionista della stessa e pertanto tendono ad essere più “atlantisti” nella loro politica estera. Di conseguenza, anche se i paesi membri UE hanno una propria diplomazia e una politica estera (v. “Politica Estera Europea”), l’orientamento di paesi come la Polonia, la Lituania, l’Estonia, la Lettonia o la Repubblica Ceca ha contribuito a plasmare una posizione UE nel complesso più disponibile a confronti anche duri con il vicino russo rispetto a qualche anno fa, come dimostrato dalla recente vicenda ucraina e le sanzioni adottate nei confronti di individui e aziende russe.

Proprio la politica più aggressiva russa manifestatasi sia in Crimea sia prima ancora in Georgia e tesa a ricreare un perimetro di stati legati economicamente e militarmente a essa, pone gravi interrogativi all’Unione Europea. Posto che per ancora molti anni a venire sarà impossibile (per entrambi le parti) prendere anche in considerazione l’avvio di procedure di ingresso della Russia nella UE, la domanda da porsi è se la “politica europea di vicinato” diretta anche a paesi come l’Ucraina, la Georgia e l’Azerbaijan debba convertirsi in un processo che più concretamente può portare all’ingresso nella UE. Questi paesi hanno delle caratteristiche socio economiche e politiche che richiedono tempi di maturazione e trasformazione più lunghi per raggiungere i criteri di Copenaghen. Mentre per essi l’accesso alla UE si trasforma in un miraggio lontano e la crisi economico-istituzionale della UE rende meno attraenti i sacrifici richiesti per raggiungere questo obiettivo, la Russia invece offre vantaggi concreti in tema di forniture di energia a basso costo e accesso al proprio mercato (anche se non in maniera incondizionata in quanto esse vengono accompagnate da una sorta di “tutela” militare). A tal proposito una delle mosse suggerite da alcuni per riguadagnare attrattività nei confronti di questi paesi, ovvero quella di liberalizzare i visti, potrebbe essere impopolare in quei paesi membri che hanno percepito un aumento di flussi migratori dall’Est Europa.

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Per quando riguarda la Turchia, paese con circa 74 milioni di abitanti (il quale sarebbe quindi secondo per popolazione solo dopo la Germania), è difficile fare previsioni su una prossima adesione, anche se la frustrazione da parte dei leader turchi è del tutto comprensibile. L’Accordo di associazione CEE-Turchia è stato firmato più di 50 anni fa (nel 1963) e la domanda d’ingresso è stata presentata nel 1987, ovvero quasi 30 anni fa. Tuttavia, le trattative ufficiali per l’adesione sono cominciate solo nel 2005, sono state sospese una volta e non sono ancora ultimate. Gli argomenti pro e contro sono molteplici e meriterebbero una trattazione separata: da un lato, l’entrata della Turchia, paese con una forza lavoro molto giovane, porterebbe benefici alla crescita economica della UE e consoliderebbe anche l’appartenenza all’Occidente di un paese che tradizionalmente è stato filoccidentale. Dall’altro, nonostante la recente crescita economica, la Turchia resta un paese relativamente povero che costituirebbe un peso eccessivo per il bilancio UE in termini di sussidi all’agricoltura e fondi di coesione. Restano poi il problema irrisolto di Cipro e anche le implicazioni geopolitiche per la UE: con l’ingresso della Turchia, l’UE si troverebbe infatti a confinare, tra gli altri, con Siria e Iran.

Oltre a queste considerazioni sull’opportunità di un ingresso nella UE di paesi come la Turchia o paesi che la Russia considera nella propria sfera d’influenza, ci sono altre considerazioni che dovrebbero spingere a “rallentare”, invece di accelerare l’allargamento della UE. La prima, ovviamente, è la capacità istituzionale dell’Unione di far fronte a nuovi ingressi. In un momento in cui la UE ha manifestato delle debolezze strutturali e in cui si sono messe in evidenza chiaramente due Unioni, una fuori dall’Euro e una nell’Euro che ormai (come discusso in altri capitoli del nostro libro) non può sopravvivere senza una forma di “federalizzazione” e quindi integrazione politica completa, allargare ulteriormente il quadro ad altri paesi potrebbe esacerbare la spaccatura tra Eurozona e resto. Inoltre, potrebbe aggravare quel deficit democratico di cui ci si lamenta: più cresce il numero dei cittadini più diventa urgente creare meccanismi di governo che combinino rappresentatività ed efficienza. Tali meccanismi però richiedono tempo per essere maturati e probabilmente andrebbero sperimentati prima con un numero più ristretto di candidati, siano questi gli esistenti 28 o i 18 paesi dell’Eurozona. La domanda da porsi quindi dovrebbe non tanto essere “dove comincia e dove finisce l’Europa” e, una volta trovata la risposta, procedere all’allargamento a più paesi “europei” possibile. La domanda invece dovrebbe essere: quali sono i limiti di un allargamento che l’attuale struttura istituzionale ed economica della UE può sopportare senza frantumarsi, e quindi quali sono le riforme necessarie per garantire che almeno il nucleo di stati esistenti superi i problemi riscontrati finora.

Per questi e altri motivi è quindi prevedibile che nei prossimi anni gli unici negoziati che avanzeranno, e comunque a passo non spedito, saranno quelli con i paesi balcanici, anche perché l’impatto di un loro ingresso è generalmente percepito come più gestibile grazie alle loro dimensioni contenute e il livello già consistente di rapporti economici con altre regioni della UE. A questi va aggiunta, probabilmente, l’Islanda. Ma è molto improbabile che si possa andare oltre.

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International lawyer, political campaigner, convinced liberal and eurofederalist

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